«Ah, ma non si può dire più niente!». Quante volte avete sentito questa risposta quando avete fatto presente che non sarebbe opportuno scherzare su una minoranza sociale che è vittima di quotidiana discriminazione? Sì, la «risata» è diventata il panda da salvaguardare dall’estinzione, il piccolo cucciolo da proteggere da quel nemico che prende il nome di politically correct.
Che fine faranno quelle povere battute che negli anni 70-80 (ma ancora oggi) partivano dalla televisione e arrivavano al compagno di scuola? Le rimpiangeremo tutti, tranne il «ne*ro», il «finocchio», la «pu**ana», lo «zingaro», la «cicciona», la «camionista» e tutte quelle persone cresciute tra il bullismo dei propri compagni di scuola, che in fondo volevano solo ridere. Ridere di loro e non con loro. Non le rimpiangerà chi quelle battute le riceve ancora dai propri colleghi, dagli amici, dalla propria famiglia. E se manifesteranno il proprio disagio diventeranno anche «polemici», «non autoironici», «pesanti».
Il caso Scotti-Hunziker
La discussione sul confine tra ironia e offesa si è riaccesa negli ultimi giorni, dopo che i conduttori di Striscia La Notizia si sono prestati a un siparietto scritto da chi pensa che nel 2021 possa ancora far ridere lo stereotipo del cinese con gli occhi a mandorla che non sa pronunciare la lettera R.
Badate bene: a far scoppiare il caso non è stata la stampa italiana, abituata al pessimo spettacolo che le reti telivisive ci propinano sotto il punto di vista dell’inclusività e del rispetto, ma Diet Prada, un’organizzazione per la tutela dei consumatori (che fa all’estero quello che in Italia dovrebbe fare chi concentra le proprie energie su Chiara Ferragni vestita da madonna). In fondo, nel nostro Paese, sono comuni gli episodi di blackface in TV mentre sui giornali si usa la parola “trans” come sinonimo di “prostituta”, nel migliore dei casi.
Questa volta, di riflesso, l’indignazione è arrivata anche nell’opinione pubblica italiana. C’è chi come Michelle Hunziker ha avuto l’intelligenza di scusarsi e chi, invece, sfrutta la discussione per rimpiangere la «beata scorrettezza» del cinema di un tempo. Sulle pagine del Fatto Quotidiano, infatti, appare un articolo che piazza nel titolo tre termini che, per qualche strano motivo, dovrebbero farci ridere: «cosce, ne*ri, finocchi».
«Cosce, ne*ri, finocchi»
L’autore cita una serie di battute, di cui evidentemente sente la nostalgia, che oggi solleverebbero le proteste di una parte del pubblico, i cattivoni del politically correct che castrano i poveri comici. Viene affermato che «moriremo di politically correct», «meno italiani», decontestualizzando battute scritte e recitate in un contesto storico differente, dove i famosi registi non potevano avere certo la consapevolezza del peso di alcune parole di cui dovremmo disporre oggi.
Repubblica sembra sulla stessa lunghezza d’onda, ospitando nelle sue pagine un pezzo in cui si afferma che lamentare una mancanza di sensibilità in quello che si vede in TV sarebbe «inquisizione» e le aziende che scelgono di utilizzare una comunicazione inclusiva sarebbero «di una pavidità imbarazzante».
Nel primo articolo si cita poi, come se fosse un aforisma da tramandare ai nostri nipoti, una dichiarazione rilasciata alcuni mesi fa da Carlo Verdone: «A forza di seguire il politicamente corretto, uno si sente sempre incatenato in qualche modo… Anche tanti miei colleghi iniziano ad averne un po’ le pa**e piene di questo politicamente corretto, perché sta diventando un po’ una patologia».
Se Verdone e i colleghi della sua generazione non sono stati capaci, negli anni, di evolvere la propria comicità senza riproporre cliché che ridicolizzano una minoranza, dovrebbero fare un po’ di autocritica. Esistono brillanti comici in Italia, che fanno il loro lavoro senza inciampare in quegli schemi derisori nei confronti del diverso o del più debole. Non è difficile, se si sbaglia – tutti lo possiamo fare – si chiede scusa e ci si evolve. E la critica dovrebbe avere un ruolo importante in questa evoluzione. Per ridere tutti, per ridere insieme.
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