Il Natale in famiglia non è per tutti. E non soltanto per le normative anti Covid. Ma anche, ancora nel 2020, per “colpa” della propria omosessualità. Per quarant’anni Manuel Croce ha vissuto nell’ipocrisia per non perdere i contatti con i genitori che lo crescono secondo i rigidi principi del cammino Neocatecumenale, una branca severa del cattolicesimo, basata soprattutto sul Vecchio Testamento, che considera l’omosessualità una malattia da curare e da nascondere.
Già non è facile nascere e crescere nel profondo Sud, a Monreale (Palermo), dove gli altri bambini non ti fanno giocare a calcio con loro perché sei “frocio”. «Ho taciuto per quarant’anni. Ho finto. Ho obbedito alla legge del silenzio. Non dire, non domandare. La paura di essere colpito, ferito. Nascere al sud Italia negli anni ’80 è stato davvero duro. Lo è tuttora, sebbene molte cose siano cambiate. Resta, in fondo, lo stigma: se sei omosessuale, stai fuori dall’ordine delle cose, come una volta. Mia madre cancellava con spugna e detersivo gli insulti omofobi che i miei coetanei scrivevano sui cartelloni stradali. Quelle parole, in realtà, il mio cuore non le ha mai debellate. Mi hanno segnato profondamente incutendomi il terrore dell’esclusione».
Anche il mondo del lavoro riserva amare sorprese a Manuel. Corona il suo sogno di diventare assistente di volo, ma nel 2006 il contratto non gli viene rinnovato a causa di un rapporto negativo di due comandanti palesemente omofobi. Manuel si rivolge al sindacato ma gli dicono che non può agire perché manca una legge contro la discriminazione omosessuale.
Trova la forza di ricominciare, torna a Monreale e diventa un bravo barman. Pur se il contesto rimane ostile, crede di aver trovato l’amore in un collega, tuttavia sempre non alla luce del sole. E purtroppo il suo partner ne approfitta: gli estorce denaro minacciando di rendere pubblica la loro relazione. Manuel riesce a reagire e lo denuncia ai carabinieri. Fin quando per Manuel arriva il forzato coming out, a giugno: una sua nipote lo provoca in una discussione e scatta quel che poi diventa un fiume in piena anche nelle mura domestiche. Finalmente Manuel riesce a dire ciò che è da sempre ma questo gli procura un biglietto di non ritorno fuori di casa, proprio mentre si ritrova disoccupato perché il suo settore di lavoro è in grave crisi a causa delle chiusure anti Covid.
«Ho bussato alle porte di un centro di accoglienza di Ballarò, nel cuore storico di Palermo. Per ripagare la loro ospitalità, mi sono dato da fare nelle pulizie, nella raccolta di derrate alimentari da distribuire a chi come me non riesce a raggiungere alla fine della giornata. Mi hanno vestito. Avevo davvero pochi abiti, non credevo affatto all’idea di non poter ritornare a casa, non essere più cercato. Ci contavo sul serio. I mesi sono passati, il silenzio dall’altra parte è stato continuo, come se non fossi mai nato. Alla fine di settembre un giornalista de La Repubblica mi contatta. Gli avevano raccontato la mia storia. È stato lui a darmi il coraggio di rendere pubblico quanto avevo vissuto. A quel punto ho deciso di metterci la faccia, il mio nome e cognome; perché l’anonimato può anche dare la sensazione che una vicenda possa essere inventata per forzare. Io volevo fosse autentica. Mi sono appellato al Presidente della Camera Roberto Fico, affinché spronasse la Camera dei Deputati sulla discussione del DL Zan contro l’omotransfobia. Ha risposto subito. Ero orgoglioso, sapevo di aver raggiunto un primo passo nella lotta per i diritti, per quella legge che dovrebbe renderci tutti uguali. Moltissimi ragazzi e ragazze mi hanno scritto, persino madri. Mi rivolgo alla Casellati, alla Presidente del Senato, in quanto mamma: sproni i senatori che siedono sugli scranni di palazzo Madama, affinché possano scrivere per la prima volta nella storia della Repubblica italiana una legge col cuore e non con la penna, poiché le normative contro l’omotransfobia sono urgenti e necessarie per proteggerci e per renderci tutti uguali».
Ma nel cuore di Manuel resta sempre l’ombra del rapporto compromesso con la propria famiglia. «A novembre ai miei genitori hanno diagnosticato il Covid-19. Mio papà, dopo ventuno giorni di ricovero non ce l’ha fatta. L’ho saputo da estranei, ma mi sono sempre tenuto aggiornato sulle sue condizioni. Quando è morto non sono riuscito a elaborare subito il lutto. Solo dopo una settimana ho pianto come un bambino, e cercavo proprio lui, quel padre che mi aveva messo al mondo, che mi aveva amato a modo suo, ma che non accettava l’idea che suo figlio fosse gay. Non l’ho mai più rivisto dal giorno in cui mi hanno cacciato, però non ho mai avuto rancore nei suoi confronti. Sono sicuro che anche lui, come mia madre, sia vittime del pregiudizio, del chiacchiericcio paesano, del pensiero beffardo del vicino di casa. Non sono riusciti a difendermi dalle ingiustizie che ho subito, ma questo non vuol dire che debbo odiarli. Ho sempre cercato l’amore del mio babbo. Adesso che lui non c’è più non mi arrendo a cercare l’amore incondizionato che mia madre non riesce a dare. So che c’è un pezzetto del suo cuore che batte ancora per quel figlio che ha messo al modo, che ha allattato col suo seno, ha accudito, pulito e lavato quando non ero in grado di farlo. In questo Natale starò da solo, nel rispetto delle norme anti Covid. Rifletterò, elaborerò il lutto. Respirerò profondamente per cercare la forza del perdono. Continuerò a lottare, da solo, come ho sempre fatto. Stavolta ci sarà la luce e il calore del sole che mi è sempre stato negato».
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