Ora che iniziamo a intravedere la luce alla fine del tunnel che prende il nome di “Fase 1”, il Governo è pronto per adottare delle strategie che ci consentano di tornare a condurre una vita quasi normale. Tra le varie misure, la più controversa è quella dell’utilizzo di un app di contact tracing che, sulla base dei nostri movimenti, è in grado di indicarci se siamo entrati in contatto con qualche persona che ha contratto il virus e, viceversa, indica tutti coloro con cui siamo entrati in contatto nel caso fossimo noi a risultare positivi.
Il problema alla base di questo potentissimo mezzo sta nella privacy. Complottismi a parte, ci sono delle categorie di persone che non intendono rinunciare alla riservatezza dei luoghi e delle persone frequentate. Poiché, con ogni probabilità, si tratterà di un’app da installare volontariamente sul proprio smartphone, è impensabile che il 100% della popolazione deciderà di farlo e, al decrescere di tale percentuale, decresce anche l’efficacia di tracciare i nostri contatti.
Ad essere restie a usare un’app di contact tracing potrebbero essere le persone appartenenti alle minoranze sessuali o, meglio, coloro che non vivono la propria sessualità alla luce del sole. In questo senso, decenni di rivendicazione dei diritti LGBT+ e di lotta all’omofobia, ci hanno fatto sicuramente fare dei passi avanti in termini di numero di persone che hanno fatto coming out in famiglia o sul lavoro. Ma le persone che vivono segretamente una relazione omosessuale o che frequentano nella massima riservatezza luoghi d’aggregazione queer sono ancora tante.
A far emergere questa problematica è il Giappone, dove le persone che non hanno ancora fatto coming out temono un outing nel caso in cui si ammalassero dopo essere stati in un locale LGBT+ o aver frequentato determinate persone. Ciò è emerso da un’indagine condotta dall’associazione Marriage for All Japan, che ha intervistato 180 persone su questo tema.
Come riporta PinkNews, un uomo di 34 anni, che vive con il suo partner a Fukuoka e non è dichiarato a lavoro, teme di poter essere costretto a rivelare il proprio orientamento sessuale nel caso in cui dovesse contrarre il Coronavirus, in quanto dovrebbe rendere nota la convivenza col suo partner a un centro di salute pubblica quando gli viene chiesto delle persone con cui ha avuto stretti contatti.
A seconda di com’è stata progettata – e al momento non lo sappiamo nel dettaglio – Immuni, l’app di contact tracing scelta dal Governo, potrebbe risultare la soluzione o un ulteriore problema circa la paura di un outing. I nodi da sciogliere sono due: il trattamento dei dati e la fiducia dell’utente. Un’adeguata tutela della privacy e una buona consapevolezza della popolazione su questo punto (che passa per la trasparenza), potrebbero rendere un’app più discreta confrontata all’attività di elencare al personale sanitario tutte le persone con cui siamo entrati in contatto?
Come funziona Immuni
Lo scorso 17 aprile, il Ministero della Salute ha comunicato che è stata firmata l’ordinanza la stipula del contratto di concessione gratuita della licenza d’uso sul software di contact tracing, fornendo delle informazioni circa il suo funzionamento.
L’applicazione di contact tracing registrerà la prossimità tra cellulari delle persone con i quali il soggetto è venuto a contatto tramite dati non direttamente idonei a rivelare l’identità di una persona. Tali dati rimarranno all’interno del cellulare fino all’eventuale diagnosi di contagio. Il sistema non ha l’obiettivo di geolocalizzazione ma quello di tracciare per un determinato periodo di tempo degli identificativi criptati dei cellulari con il quale il soggetto positivo al virus è entrato in stretto contatto. Questo accade solo se in entrambi i cellulari è presente l’applicazione di tracciamento.
Chi scarica e usa l’app acconsente che essa crei un registro dei contatti in cui viene memorizzato qual è il dispositivo con il quale si è stati in contatto, a che distanza e per quanto tempo. Sul sito del ministero viene poi specificato: «Qualora il soggetto risulti positivo a seguito di un test, l’operatore medico autorizzato dal cittadino positivo, attraverso l’identificativo anonimo dello stesso, fa inviare un input/messaggio di alert per informare tutti quegli utenti identificati in modo anonimo che sono entrati in contatto con lui».
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