È una storia che ha dell’incredibile quella denunciata sui social da Gabriella e Miriam, due giovani donne leccesi unite civilmente da due anni, protagoniste a Bologna dell’ennesimo episodio di omofobia tra le mura di un ospedale. Secondo il loro racconto, un medico del pronto soccorso dove si erano recate in una situazione di emergenza, avrebbe avuto toni aggressivi e avrebbe espresso degli insulti omofobi nei loro confronti.
La denuncia social di Gabriella e Miriam: «medico omofobo e aggressivo»
Lo scorso 11 giugno, Gabriella, paziente onco-ematologica, ha avuto una reazione allergica ad alcuni nuovi farmaci che le erano stati prescritti per il dolore alle vertebre causato dalla malattia con cui combatte da tempo. Una volta arrivate in pronto soccorso, però, i toni e le parole riservate alla paziente e a sua moglie non sarebbero stati dei migliori, anzi le avrebbero esposte a ulteriore stress. «Il problema più grosso e brutto è stato il trattamento che abbiamo ricevuto dal medico – racconta Miriam – Omofobo e aggressivo. Sin dal nostro arrivo ha iniziato ad insultare sulla nostra omosessualità, dicendo cose orribili».
A quel punto, secondo quanto sostenuto dalle due donne, il medico avrebbe cacciato in malo modo Miriam mentre cercava di spiegare cosa fosse successo. «Mentre ero in stato di coscienza e lui pensava di no – aggiunge Gabriella – si è permesso di insultare me e mia moglie. Un omofobo e razzista, ne aveva una per tutti. Non potevo reagire, ma quando mi sono svegliata dopo l’antistaminico ero molto nervosa, proprio perché avevo sentito tutto e anche come aveva trattato mia moglie, e ho fatto un macello».
La reazione accesa della paziente avrebbe portato il medico a chiedere la visita di uno psichiatra, rifiutando la richiesta della donna di firmare le proprie dimissioni. «Ha chiamato uno psichiatra facendo intendere che io fossi arrivata drogata e che stessi nel delirio, che mi stessi facendo male – afferma Gabriella – Ma alla consulenza psichiatrica lo psichiatra ci ha trovate tranquille e ho spiegato la situazione. Nel referto ha scritto lo stretto indispensabile, ma col senno di poi gli avrei detto di refertare la mia testimonianza, cosa che purtroppo non ho fatto».
La donna spiega di aver chiesto di essere dimessa perché stava meglio e che, contro la propria volontà, è stata ricoverata in medicina generale, esponendola a dei rischi in quanto paziente fragile. «Non ha voluto né vedermi né visitarmi – denuncia – mi ha fatta sbattere su una lettiga senza cuscino, pur sapendo del mio crollo vertebrale, e mi ci ha fatta rimanere fino alle 8 del mattino, nonostante non ce ne fosse il bisogno».
Più tardi sono arrivate le agognate dimissioni. «Ho spiegato tutto ad un infermiere, che mi ha poi detto di essere gay e che capiva la situazione – racconta Gabriella – Molto gentilmente mi ha fatto firmare ed uscire. A quanto pare questo soggetto lo conoscono tutti in Pronto Soccorso». «È stato un inferno, non tanto quello che aveva Gabri ma quanto l’atteggiamento del medico – aggiunge Miriam – Io e mia moglie siamo una coppia sposata come tutte le altre e abbiamo gli stessi diritti».
Omofobia in ospedale: non un caso isolato
Sebbene questa sia la denuncia social di due donne provate per la loro esperienza, che necessiterà auspicabilmente di approfondimenti ed eventualmente di provvedimenti, nel caso in cui questo episodio fosse confermato non si tratterebbe, purtroppo, del primo caso di omofobia tra le mura di un ospedale.
Alcuni mesi fa, in provincia di Varese, un chirurgo aveva rivolto delle ingiurie omofobe e sierofobiche al paziente sotto ai ferri, per poi essere denunciato dagli stessi colleghi. Nello stesso periodo, a Torino, un infermiere aveva raccontato di aver ricevuto dei commenti omofobi da parte di una collega in seguito a una discussione. Degli insulti omofobi, a Lecco, erano stati rivolti nel 2017 a un infermiere prima che si suicidasse, e poi ad un’altra dipendente nel 2019. A queste discriminazioni si aggiungono poi quelle, purtroppo quotidiane, delle persone transgender, che in molti casi si trovano di fronte a un personale non adeguatamente formato, come il caso di una donna trans a Napoli, portata prima nel reparto maschile e poi in una stanza non attrezzata.
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