La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riconosciuto che la sentenza di assoluzione per i 6 imputati per un processo di stupro, svoltosi nel 2015, era viziata da stereotipi sessisti e bifobici. Tali stereotipi, secondo la corte, non garantirono la tutela della vittima condannando l’Italia al pagamento di 12mila euro in favore della ragazza, all’epoca appena ventiduenne. Lo stupro si consumò in una macchina in prossimità di un centro eventi, la fortezza da Basso a Firenze, e vide la ragazza vittima di violenza da parte di 6 ragazzi tra i 20 e i 25 anni.
Dopo un primo grado, che vide la condanna degli imputati, ci fu un ribaltamento in appello: la corte pronunciò l’assoluzione degli imputati con perché «il fatto non sussiste». Per giungere a tale pronuncia la corte d’appello obiettò che la ragazza era «un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso disinibito, creativo, in grado gestire la propria bisessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta».
La ragazza venne, dunque, considerata con una vita «non in linea» poiché, come sottolineato dal suo legale, «ha avuto due rapporti occasionali, un rapporto di convivenza e uno omosessuale: in una motivazione di sole quattro pagine si sostiene che con il suo comportamento ha dato modo ai ragazzi di pensare che fosse consenziente».
Fortunatamente, ora, la CEDU ha provato a ridare dignità alla vittima, chiarendo che «i pregiudizi sul ruolo delle donne esistenti nella società italiana non avevano rispettato la vita privata e l’integrità personale
della ricorrente e avevano omesso di proteggere la donna dalla “vittimizzazione secondaria”», che di fatto riconosce la responsabilità della violenza alla vittima stessa.
Mentre il mondo va avanti nell’affermazione dei diritti fondamentali delle persone LGBTQI e nella lotta alla concezione patriarcale della società, in Italia, purtroppo, la vittima deve ricorrere ad un organismo esterno per vedere tutelata la propria dignità.
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