«Oggi sono 130 giorni che Patrick Zaki è prigioniero. Che il mondo lo sappia». Questo è solo uno dei tanti tweet che chiedono la liberazione dello studente dell’Università di Bologna incarcerato in Egitto, con l’accusa di «diffusione di notizie false su Facebook e dichiarazioni che disturbano la pace sociale» e messo in cattiva luce dalla stampa egiziana in quanto attivista LGBT+.
Oggi sono 130 giorni che Patrick Zaki è prigioniero. Che il mondo lo sappia#freepatrick #patrickzaki
— FreePatrick (@FreePatrickZaki) June 15, 2020
Un caso che è stato più volte affiancato a quello di Giulio Regeni, soprattutto per l’inerzia del nostro Paese nel chiedere giustizia. Per questo, venerdì scorso il collettivo Làbas ha organizzato un flashmob in Piazza Maggiore, tramite l’esposizione di un’opera di Gianluca Costantini. 1500 fogli A3 sono stati uniti per formare un unico grande mosaico nel quale veniva chiesto lo stop alla vendita di armi all’Egitto, verità per Giulio Regeni e libertà per Patrick Zaki. Un’altra manifestazione era stata organizzata dagli studenti dell’Università di Bologna lo scorso Maggio, i quali si sono incatenati al colonnato di Piazza Scaravilli per ricordare il loro collega incarcerato.
Freedom for #patrickzaky adesso in Piazza Maggiore a #Bologna @amnestyitalia @EIPR @FreePatrick3 #Labas @LabasBo pic.twitter.com/iyueDD8RXP
— Gianluca Costantini (@channeldraw) June 12, 2020
Siamo ancora in tempo per fermare la vendita di armi dell’Italia all’Egitto?
La mia risposta a @RadioRadicale. #fincantieri #regeni #veritapergiulioregeni https://t.co/sX2LW59gif
— Laura Boldrini (@lauraboldrini) June 11, 2020
I flashmob non sono stati l’unica iniziativa a supporto di Zaki nel capoluogo emiliano. Come riportato da BolognaToday, ieri nel Consiglio Comunale di Bologna è stato depositato un ordine del giorno che formula l’invito a concedere la cittadinanza onoraria a Patrick Zaki, rivolgendosi al sindaco Virginio Merola. A firmarlo è stata Simona Lembi (PD), che già in Città metropolitana aveva presentato un primo odg che chiede a tutti i Comuni bolognesi di concedere la cittadinanza a Zaki.
Il caso Zaki
L’improba vicenda inizia a Febbraio quando Patrick, ricercatore egiziano venuto in Italia per partecipare al Gemma (un master in Gender e Women Studies dell’Università di Bologna), decide di tornare a Mansoura, sua città natale a 130 chilometri a nord del Cairo, per far visita alla famiglia. Al suo arrivo in aeroporto, Zaki viene però fermato dalla polizia senza apparenti motivi e viene torturato.
Accusato dal governo egiziano di vari reati tra cui «diffusione di notizie false», «incitamento alla protesta» e «istigazione alla violenza e ai crimini terroristici», in realtà tutto pare condurre ad un’unica ragione per il suo arresto: la presunta omosessualità di Patrick e la sua lotta per i diritti LGBT+, portata avanti anche in uno studio per l’Ong egiziana con cui collaborava.
Come sottolinea Elle, i media egiziani hanno assunto questa linea con l’intento di mostrare Patrick come un sovversivo agli occhi della società egiziana dove, anche se l’omosessualità non è esplicitamente punita per legge, si mantengono delle tradizioni profondamente omofobe e sessiste.
Sarah Hegazi, la prigioniera LGBT+ che non ce l’ha fatta
Purtroppo Zaki non è l’unica vittima dell’oppressione del Governo egiziano ai danni delle persone omosessuali, di cui nega persino l’esistenza. Tre giorni fa Sarah Hegazi, attivista LGBT+ trasferitasi in Canada dopo gli abusi subiti in Egitto, si è suicidata lasciando una lettera: «Ai miei fratelli, ho provato a sopravvivere ma ho fallito. Ai miei amici, l’esperienza è stata dura e io ero troppo debole per lottare. Al mondo, sei stato davvero crudele, ma io ti perdono».
La storia di Sarah, così vicina a quella di Patrick, e il suo inferno iniziano in una sera di Settembre 2017 ad un concerto dei Mashrou Leila, band libanese il cui frontman è gay e difende apertamente, insieme ai suoi compagni, la causa LGBT+.
Una bandiera arcobaleno, simbolo di pace e di diritti, basta per procedere all’arresto: Sarah racconterà agli amici delle violenze e delle torture fisiche e psicologiche subite nei due mesi in carcere. Su di lei, attivista LGBT+, la mano sempre durissima dei carcerieri egiziani si accanisce in modo particolare. Una volta rilasciata, riesce ad ottenere protezione dallo stato canadese, dove però non regge al ricordo e al trauma, e trova nel suicidio l’unica fine possibile della sua storia.
“Il viaggio è stato duro e sono troppo debole per resistere.”
Si è suicidata Sarah Hegazi, attivista egiziana per i diritti LGBTQI+ che, nel 2017, è stata incarcerata dal regime del Cairo per aver sventolato una bandiera arcobaleno durante un concerto. pic.twitter.com/L10SnBK4nj
— Roberto Saviano (@robertosaviano) June 15, 2020
Una vita spezzata e un’altra prigioniera. Una lotta profonda e comune che deve essere combattuta e che, sebbene l’enorme difficoltà, un giorno verrà vinta.
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