Febbre. Jonathan Bazzi (Fandango)
È un libro perennemente in bilico tra bello e scontato, l’opera prima di Jonathan Bazzi, autore nonchè collaboratore di Gay.it che nel 2016, in occasione della Giornata Mondiale contro l’AIDS, raccontò la propria esperienza.
Sono presenti due parti che, a mio avviso, non dialogano tra loro: una quasi programmatica e schematica che, benché costituisca l’esperienza biografica dell’autore, descrive senza particolari guizzi il coming of age in una “non famiglia” ed in un luogo, Rozzano, che, senza avere la bellezza del Sud, è un meridione d’Italia trapiantato a pochi chilometri da Milano.
Riuscita e molto interessante è invece l’altra parte, quella che da il nome al libro, quella che racconta questa Febbre. Il racconto diviene così un’esperienza di formazione dello stesso Bazzi che prende consapevolezza e comprende l’importanza della sua testimonianza che diviene così anche militanza.
Febbricola, febbriciattola, febbre a 37, questi sono i sintomi che iniziano a preoccuparlo e che traspaiono anche da un aspetto non troppo sano. «Non hai un’aria sana, sembri sieropositivo», così gli dice un amico di Marius, il compagno di Jonathan, nelle prime pagine della storia. No, Jonathan non ci sta, e gli risponde dicendo che sembra più lui un sieropositivo perché tutti i sieropositivi che conosce sono troie, come lui. Ma pian piano, nel resoconto di questo percorso di malattia, la sierofobia introiettata, di cui spesso è preda anche la comunità LGBTQIA+, cede il passo a una rivelazione, ovvero la banalità dell’HIV.
Sfatato il maledettismo dell’AIDS, così come è stato tramandato dalla cultura degli anni ’80/90 dello scorso secolo, qui si evidenzia come la sieropositività possa capitare a chiunque, a prescindere dal genere, dall’orientamento sessuale o dal livello di istruzione. Chi è sieropositivo o sieropositiva non ha fatto niente di male. Essere sieropositivo diviene quindi nient’altro che una condizione corporea, oggettiva, non dice niente su chi ce l’ha.
Jonathan Bazzi rompe un tabù ancora oggi forte, il marchio di quello che viene visto come un’infamia, uno stigma sociale che a volte può avere ripercussioni sull’affettività delle persone, diviene qui exemplum per affrontare la vita.
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