È probabile che coloro che si imbatteranno nella lettura di questo articolo conoscano bene quel magico posto bolognese chiamato Cassero, quello degli albori piuttosto che l’attuale. Coloro che, invece, non dovessero mai averne sentito parlare, possono approfittare di questa forzata quarantena da Coronavirus per trovare un pezzo di storia del Movimento LGBT italiano nel documentario di Andrea Adriatico, disponibile gratuitamente fino al 29 marzo su Vimeo (e in fondo a questo articolo).
Il frocialismo bolognese
Parlare della nascita del Cassero significa tornare indietro nel tempo alla Bologna dei moti studenteschi del ’77. Proprio in quel contesto, un gruppo di ragazzeh cominciò a riunirsi una volta alla settimana all’interno del “Circolo Treves” messo a disposizione dal Partito Socialista, optando però per una variazione del nome: Circolo Frocialista.
A vivacizzare questo sgangherato gruppo c’era il cileno Samuel Pinto, in arte Lola Puñales, fuggito dalla persecuzione di Augusto Pinochet. I partecipanti a quelle riunioni, però, cominciarono ad aumentare e con essi crebbe la necessità di un pubblico riconoscimento del nascente Movimento gay italiano.
Nel frattempo, era nato il F.U.O.R.I. (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) che preferì il Partito Radicale per portare avanti le sue rivendicazioni e tale scelta di campo ebbe come conseguenza la nascita di tanti collettivi gay sparsi per lo Stivale, indipendenti o vicini alla sinistra extraparlamentare.
Quello che oggi chiamiamo Movimento LGBT+ era allora un universo frammentato e disorganizzato, ma proprio su Bologna trovava uno degli avamposti più strutturati e lì concentrò tutte le sue forze.
Il primo spazio pubblico arcobaleno
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, Bologna era sempre stata amministrata da quel Partito Comunista assai riottoso a volgere uno sguardo verso i “busoni”. Tuttavia, dalle testimonianze dei protagonisti di quegli anni, emergeva come il PCI stesse cambiando e sotto le Due Torri ne stesse nascendo uno tra i più all’avanguardia.
Nel 1980 l’Amministrazione comunale, attraverso l’Assessore alla cultura Sandra Soster, raccolse le istanze di partecipazione del mondo omosessuale, dai concerti dei Clash e degli Skiantos in occasione di Ritmicità alla concessione di un finanziamento per la rassegna cinematografica L’immagine negata per scoprire numerose pellicole che dagli albori del cinema trattarono dell’omosessualità.
Furono proprio quelle le occasioni per avviare il dialogo che porterà all’individuazione della sede – con tutte le difficoltà narrate nel documentario – per fornire una vera e propria casa a tutte quelle pazze. Chiedere e ottenere uno spazio pubblico non era difficile per un’associazione cittadina, tutt’altro discorso valeva per un’associazione di gay, lesbiche e transessuali.
Per due anni si susseguirono gli incontri dei frocialisti con l’allora Assessore al patrimonio Elio Bragaglia che giorno dopo giorno costruì, insieme al Sindaco del tempo Renato Zangheri, un confronto per la ricerca di un locale pubblico. Fu in realtà una funzionaria del Comune di Bologna a proporre l’idea di una vecchia sede abbandonata che sembrava perfetta per la richiesta: l’ex Circolo ARCI “Fabris”, non immediatamente vicino alle abitazioni e abbandonato dopo un incendio che lo aveva colpito.
Disgraziatamente però, la soluzione individuata si trovava a Porta Saragozza, laddove campeggia una lapide dedicata alla Madonna di San Luca e sotto la quale passa annualmente la processione. Cominciò così una strumentale battaglia di vicinato, mai avvenuta in precedenza, neanche quando la sede fu assegnata al PCI o, prima ancora, quando cadde nelle mani dei fascisti. Non solo, la Trattoria Boni di via Saragozza raccolse duemila firme per togliersi quell’imbarazzo di torno, ma la restante parte della città rispose con diecimila sottoscrizioni, tra cui quelle di decine di intellettuali. L’atteggiamento delle destre si fece sferzante al punto tale da convincere della bontà della scelta anche i più dubbiosi comunisti bolognesi.
Su tutti, però, si convinse Renzo Imbeni, allora segretario cittadino del PCI, il quale – dopo aver tentato di individuare un’altra soluzione – capì che cedere alle richieste della Curia avrebbe significato trattare gli omosessuali come dei diversi, per l’ennesima volta. Ciò non avvenne e nacque il Cassero, così prossimo alla Vergine.
Dall’inaugurazione allo spostamento della sede
“Circolo frocialista” non era elegante per un contratto e allora si preferì “Circolo XXVIII giugno”, richiamando la data del primo Pride newyorkese, e proprio in quel giorno del 1982 da tutta Italia accorsero in centinaia per un corteo aperto dall’irriverente striscione “L’è méi un fiôl ledér che un fiôl busón” (“È meglio un figlio ladro che un figlio busone”) che si sarebbe concluso con un girotondo intorno al Cassero. Successivamente avvenne la spaccatura con la Puñales, troppe furono le distanze con le lotte transessuali contro il racket della prostituzione bolognese.
Tuttavia, in quei primi anni la fece da padrona solamente la spensieratezza nella gestione del bar, dell’arredamento e dei primi eventi. Il Cassero proponeva politica attraverso la cultura, senza chiaramente tralasciare il party time. Esisteva ormai un luogo pensato per coloro che erano considerati diversi, dove però chi aveva difficoltà a muovere il primo passo era innanzitutto un omosessuale perché avrebbe affermato in maniera irrevocabile di esserlo, in mezzo a tanti altri come lui.
Nel 2001, la prima Amministrazione di centrodestra targata Guazzaloca spinse per un cambio della sede nell’ambito di questioni contrattuali sulle quali non si spegneranno mai le polemiche. La vecchia sede è ora il Museo della Madonna di San Luca e il Cassero di oggi è a Porta Lame, posto all’interno della Manifattura delle Arti, crocevia delle esperienze della Cineteca, dei Dipartimenti di Musica e Spettacolo e di Scienze della Comunicazione dell’Università e del Museo d’Arte Moderna di Bologna.
Chiunque voglia conoscere la storia del Movimento omosessuale italiano deve passare per Bologna, deve incrociare la sua strada con quella di una signora dai fianchi un po’ molli col seno sul piano padano e il culo sui colli, dove tutto è cominciato e dove tutto oggi resiste ancora.
Torri, checce e tortellini: lo streaming (fino al 29 marzo)
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