Vedere immagini che ritraggono uomini nudi o che mettono in mostra la propria anatomia è oggi qualcosa di quotidianamente sdoganato su tutti i social media, i quali offrono spesso facili spunti di riflessione per le sedute di autoerotismo. Le cose andavano diversamente fino ad almeno 20 anni fa quando, prima dell’avvento della diffusione di Internet, se non si disponeva dei “mitologici” giornaletti usati e abusati da fratelli, cugini o amici più grandi (gusti in comune permettendo) era possibile ripiegare sulla sezione “Intimo” del catalogo Postalmarket di mamma o su qualche edizione estiva dei settimanali scandalistici. Ma, andando ancora indietro nel tempo, non erano disponibili neanche questo tipo di stimoli su carta stampata.
Yukio Mishima, scrittore giapponese del secolo scorso, nel romanzo autobiografico del 1948 “Confessioni di una Maschera” ci racconta la sua prima masturbazione, ispirata dal sensuale dipinto (in copertina) di Guido Reni ritraente San Sebastiano, santo protettore degli arcieri e dei vigili urbani:
Quel giorno, nell’attimo in cui scorsi il dipinto, tutto il mio essere fremette d’una gioia pagana. Il sangue mi tumultuò nelle vene, i lombi si gonfiarono quasi in un empito di rabbia. La parte mostruosa di me ch’era prossima a esplodere attendeva ch’io ne usassi con un ardore senza precedenti, rinfacciandomi la mia ignoranza, ansimando per lo sdegno. Le mani, affatto inconsciamente, cominciarono un movimento che non avevo imparato mai. Sentii un che di segreto, un che di radioso, lanciarsi ratto all’assalto dal didentro. Eruppe all’improvviso, portando con sé un’ebbrezza accecante… Trascorse un certo tempo e poi, con animo desolato, guardai in giro per lo scrittoio a cui stavo di fronte. Fuori dalla finestra un acero proiettava dovunque un vivido riverbero – sulla boccetta d’inchiostro, su libri e quaderni di scuola, sul dizionario, sull’immagine di San Sebastiano. Apparivano qua e là degli schizi d’un biancore fioccoso – sul titolo a caratteri dorati d’un libro di testo, sul margine del calamaio, su uno spigolo del dizionario. Alcuni oggetti gocciavano pigramente, altri lucevano di un fioco barlume come gli occhi d’un pesce morto. Per fortuna un movimento riflesso della mia mano per proteggere la figura aveva impedito che il volume s’insudiciasse.
Non a caso, San Sebastiano – di cui oggi 20 gennaio ricorre la memoria liturgica per la Chiesa Cattolica – è stato eletto “protettore” da parte dei cattolici omosessuali, ovviamente senza il riconoscimento della Chiesa. Come tutte le tradizioni, anche questa ha una origine che pare essere molto recente, e coincide sicuramente tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, quando si inizia ad accostare ai tantissimi quadri di diverse epoche ritraenti San Sebastiano, rappresentato nudo e legato a un albero nell’atto di essere martirizzato, un significato vagamente erotico e sessuale, probabilmente voluto dagli stessi autori, ma fino a quel momento mai evidenziato.
Celebre è il melodramma del 1911 “Le martyre de Saint Sébastien”, scritto da Gabriele D’Annunzio e musicato da Claude Debussy, da cui trae origine una pietra miliare della filmografia gay “Sebastiàne” (pronunciato all’italiana) del 1976, diretto da Derek Jarman. Entrambe le opere prendono spunto da una presunta agiografia, sicuramente spuria, che vede San Sebastiano guardia del corpo e amante dell’imperatore Diocleziano e poi suo attentatore. L’incoronazione di icona gay, fatta nel corso del ‘900 da scrittori, musicisti, registi e fotografi, è il risultato di un ammiccamento lungo almeno cinque secoli, periodo in cui San Sebastiano è stato utilizzato come modello da tantissimi pittori e scultori tanto da essere considerato uno dei santi più rappresentati della Chiesa Cattolica e l’unica immagine di uomo nudo e sensuale (ad eccezione del Cristo) permessa nelle chiese.
Sarà solo un caso che Gallipoli, città di cui San Sebastiano è protettore, sia diventata una meta LGBT+?
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