«Sono stato una vittima muta dei bulli, non fate come me»

Gabriele ha 27 anni, vive a Torino e, da ormai due anni, fa il parrucchiere. Conduce un’esistenza ordinaria, scandita dai normali ritmi imposti da una grande città del nord Italia: fare la spesa, pregare che i vestiti si asciughino nonostante la pressoché costante latitanza del sole, decidere quante volte a settimana ordinare un Glovo onde evitare di lavare i piatti. Questa sana quotidianità, questa routine costellata di “cose semplici”, simile in tutto e per tutto a quella di altri suoi coetanei, Gabriele ha dovuto conquistarla con fatica, lottando, a lungo e duramente, contro un nemico molto violento chiamato omofobia.

«Gabriele, perché mi hai chiesto questa intervista?» Lui, non appena finito di assaporare la sua meringata al limone, mi risponde: «per dare un barlume di speranza a chi è ancora in tempo Giovanni, in tempo per evitare che le conseguenze di atti omofobi possano, come dire… rovinare per sempre il futuro di qualcun altro, così come è successo a me. Io fisicamente, oggi, sto bene, è vero, ma quello che mi è successo non lo scorderò mai. Quel dolore, di cui ho spesso parlato con vari psicologi, mi accompagnerà per sempre, non andrà mai via».

Il nostro hair stylist dai capelli rossi nasce e cresce in Sicilia, in un paesino di 5000 abitanti della provincia di Messina. I primi anni di vita trascorrono sereni, coccolato da due genitori molto presenti e dall’affetto di due fratelli più grandi. L’ombra del bullismo, tuttavia, ha bussato molto presto alla porta di questo timido ragazzo, che già durante i cinque anni di scuole elementari, si è sentito spesso apostrofare con epiteti quali “finocchio”, “ric**ione”, “fr**io”, il tutto sotto lo sguardo poco vigile e poco attento dei maestri, che non si sono nemmeno mai resi conto di nulla.

Arrivato alle scuole medie gli insulti non sono cessati, anzi, tutto il contrario: la sua estrema educazione, la sua dolcezza e la sua sensibilità, piuttosto che essere visti come rari pregi, sono stati inquadrati come punti deboli, come difetti, come tratti caratteriali da criticare, da schernire, da soffocare. «Non capivo il perché mi odiassero tanto – mi dice – ero un ragazzo come tanti altri, parlavo con tutti, non offendevo nessuno, forse ero solo più delicato nei modi, ma un ragazzo normalissimo».

Questa situazione, già per niente facile, si è trasformata in un vero e proprio inferno una volta che Gabriele è giunto alle superiori: già dal primo giorno di scuola, infatti, sono iniziate una serie di offese che lo seguivano «per le scale, in classe, in bagno, nei corridoi, all’ingresso, per strada, alla stazione e persino sul treno». Anche in questo caso, così come già avvenuto in passato, nessuno, ahimè, ha scelto di schierarsi dalla sua parte, di prendere le sue difese, di aiutarlo; escludendo poche e care amiche, infatti, nessuno si è prodigato anche solo per porgergli una parola di conforto.

«Anche i professori, ahimè, sono rimasti abbastanza indifferenti: a parte due docenti che hanno cercato di aiutarmi, tutti gli altri hanno fatto finta che il problema non esistesse, non hanno mosso un dito». Dopo aver tirato un sospiro profondo, aggiunge: «io so bene che avrei potuto denunciare tutti e far scoppiare questa bolla di noncuranza, ma sai, alla fine del primo anno di liceo era venuto a mancare mio padre, la mia famiglia era già abbastanza sconvolta per questa perdita… non me la sono sentita di aggiungere altro dolore».

Come è facile immaginare, i mesi immediatamente successivi al lutto, durante i quali qualche stupido adulto si è anche permesso di dire a Gabriele che il padre fosse morto a causa sua e della sua omosessualità, non sono stati per niente facili. Ciononostante, compiuti i 15 anni, il nostro piccolo eroe ha deciso di prendere in mano la sua vita e di farsi forza, decidendo che era arrivato il momento di smettere di nascondersi: «ho trovato la forza di fare coming out e di dire a tutti che ero omosessuale. Alle mie quattro amiche e ai miei genitori avevo già confessato, un anno prima, di essere gay, e se mia madre, inizialmente, aveva fatto un po’ fatica perché non sapeva bene come aiutarmi a gestire la cosa, mio padre aveva accolto la notizia con tranquillità, cosa questa che mi ha dato molta forza».

Gabriele su Instagram

Questa pubblica dichiarazione, che nelle speranze di Gabriele, avrebbe dovuto portare quantomeno ad una diminuzione degli atti di violenza, ha fatto però aguzzare l’ingegno ai suoi coetanei, affetti da una forma di omofobia che potremmo definire criminale: gli insulti, infatti, non solo non sono cessati, ma hanno preso ad arrivare anche sotto forma di mail e di SMS.

Erano moltissimi i messaggi che giungevano da account Facebook falsi, appositamente creati, all’interno dei quali, tra una minaccia e l’altra, gli veniva consigliato di prostituirsi e persino di uccidersi. Ma non finisce qui: giunto al penultimo anno di liceo, Gabriele, si è anche visto recapitare una “petizione” (così era stata definita) che raccoglieva quasi un centinaio di firme allo scopo di buttarlo fuori dalla scuola in quanto “persona indesiderata”.

«Non lo so come ho fatto a superare indenne le superiori – mi dice con un sorriso beffardo, carico di incredulità – non chiedermelo perché non lo so proprio».

Ottenuto il diploma, Gabriele, decide di prendersi un anno sabbatico, così da ricaricare le batterie e fare il punto della situazione, ma nemmeno questa volta, il nostro amico, trova pace: gli atti di violenza, anche fisica, infatti, non accennano a diminuire, ecco perché, ormai sfinito, decide di chiudersi in casa, perché solo tra le mura domestiche è al sicuro. «Dopo un’intera estate passata agli “arresti domiciliari” nella mia cameretta, ho iniziato a mangiare sempre meno, perdendo, in pochi mesi, circa venti chili; in più ho iniziato a farmi male, a tagliarmi».

I disturbi alimentari, l’autolesionismo e persino un tentativo di suicidio fortunatamente non andato in porto, una volta scoperti, convincono la famiglia ad intervenire: «i miei fratelli mi hanno praticamente impacchettato e spedito a Torino, per cambiare aria. Una volta arrivato lì mi sono iscritto all’università, ma poco dopo ho deciso di iniziare a lavorare, di essere indipendente, di imparare un mestiere, e così ho scelto di diventare un parrucchiere».

Sono tante altre le cose di cui Gabriele mi ha parlato, ma quel che gli preme sottolineare, quasi alla fine di ogni frase, è che denunciare la violenza subita è sempre, in ogni caso, la scelta migliore: «Scrivilo questo Giovanni, non devono fare come me, non bisogna mai restare zitti, non bisogna mai trasformarsi in vittime mute».

La speranza di Gabriele è che la sua storia possa servire a smuovere le coscienze, possa aiutare eventuali vittime a reagire, a strappare quel velo di omertà così da gridare al mondo che l’omofobia, il bullismo, la transfobia, la misoginia o la xenofobia vanno affrontate e combattute parlando, chiedendo aiuto, sporgendo querele, perché il silenzio non porta mai, mai, a nulla di buono.

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