Mai come quest’anno si è assistito ad una carrellata di packaging dei prodotti venduti dalle aziende, vetrine di negozi, post sui social, pubblicità e programmi televisivi tutti realizzati a tema arcobaleno, l’emblema del mondo LGBT+. Nel contribuire a questo nuovo modo di operare da parte del marketing delle imprese non si possono non menzionare i numerosi Pride avvenuti lungo tutta la Penisola (e con enorme successo).
Ma cosa si nasconde dietro a questo cambiamento apparentemente open mind? Negli ultimi anni si sta diffondendo in tutto il mondo, e di recente in Italia, il cosiddetto “capitalismo rosa”, ossia la trasformazione del capitalismo e dell’economia di mercato che conosciamo in una veste meno rigida, che non si nasconde dinanzi alla crescente esigenza di arrivare anche al target omosessuale, da sempre escluso dal core business della maggiorparte delle aziende. Ed ecco che così è nato un mercato indirizzato proprio alla comunità gay, come bar e discoteche, mete turistiche ed eventi culturali.
Questa nuova ondata di prodotti e servizi dedicati ad un pubblico omosessuale è stata determinata senz’altro dall’opportunità per le grandi aziende di generare guadagni più elevati, dal mostrarsi più social friendly con la loro clientela e di distanziarsi da un modo di fare ormai obsoleto e superato.
Non è tutt’oro ciò che luccica
La Voce Delle Lotte ha tradotto un articolo de La Izquierda Diario, sito di notizie spagnolo, cui riporta il dissenso dell’Orgoglio Critico di Madrid sul capitalismo rosa derivante dal World Pride 2017, evento che ha regalato grandi affari agli imprenditori della capitale. Tutto ciò non ha trovato l’appoggio di alcuni esponenti, che, per esprimere la loro disapprovazione, hanno lottato contro la mercificazione delle identità di genere mediante l’istituzione del Pride Critico.
Essi denunciano un modello di Pride trasformato dalle grandi aziende in un mercato di nicchia, in cui le molteplici identità sessuali sono vendute a caro prezzo. I marchi celebri come Coca Cola o Mc Donald’s hanno lanciato dei prodotti speciali con la bandiera arcobaleno per ripulire la loro immagine, in un’ottica di pinkwashing, e i finanziamenti pubblici finiscono nelle mani di imprenditori e politici alleati. Per questo motivo, la piattaforma lavora «per un Pride inclusivo, non mercificato, né mercificabile, non di consumo».
Il rainbow washing è un termine derivato dal pinkwashing, ma è usato specificamente per la comunità LGBT+, ed indica il comportamento delle aziende attuato al fine di far diminuire l’attenzione sui difetti del prodotto camuffandoli con la presentazione dello stesso in una veste gay-friendly. Non tutte le aziende possono permettersi di fare ciò, ma solo quelle che hanno una clientela molto attenta alle nuove realtà che stanno emergendo o formata prettamente da giovani. Questo perché, se tale tattica fosse usata da un’azienda che presenta un pubblico over (fascia d’età che è restia ad accettare il “diverso”) o una brand identity debole, vedrebbe diminuire i suoi ricavi a causa dell’abbandono da parte dei clienti.
D’altro canto, però, ci sono imprese che fanno sperare, come IKEA: l’azienda svedese presenta dei forti valori aziendali, come l’uguaglianza, e da sempre fa comunicazioni a favore della nostra comunità, che confermano il nesso tra valori aziendali ed azioni.
Anche Vector, PMI italiana attiva nell’import-export, sta seguendo le orme di mamma Ikea. «Lavoriamo su due fronti – enuncia Camilla Buttà, diversity inclusion manager e pricing manager della società – Puntiamo a regolamenti interni che siano sempre più inclusivi. Abbiamo anticipato la legge Cirinnà sui matrimoni, garantendo alle coppie omosessuali gli stessi diritti di quelle eterosessuali. E poi, nonostante non sia passata la legge sulla stepchild adoption, garantiamo ai genitori non biologici o adottivi gli stessi diritti degli altri. Non abbiamo transessuali in azienda, ma se dovessero arrivare, troverebbero un regolamento già pronto. Per esempio, possono venire al lavoro vestiti come preferiscono ed essere chiamati con il nome che scelgono, anche se non è ancora sulla carta d’identità».
La vicenda Barilla
Ha fatto molto discutere oltreoceano l’incoerenza della nota azienda agro-alimentare parmigiana Barilla. Come riporta Dagospia, negli USA il potere d’acquisto della comunità LGBT+ è intorno ai 1000 miliardi di dollari, in crescita rispetto agli anni scorsi.
È da ciò che si evince la scelta dell’azienda italiana sopracitata a cambiare i propri passi: dalla gogna mediatica e dal boicottaggio avvenuti a seguito della famosa frase pronunciata dal presidente del gruppo Guido Barilla – «Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale» -, il marchio è passato, nella terra che fu di John Kennedy, ad essere valutato in positivo dalla Corporate Equality Index, l’agenzia di rating del mondo rainbow.
E gli altri?
Le grandi società high-tech statunitensi, come riporta un articolo di GayPost, nonostante si siano mostrate molto disponibili nel sostenere i Pride avvenuti durante il mese di giugno, nel resto dell’anno hanno finanziato i membri della politica americana avversi all’ideologia dell’uguaglianza e del rispetto di tutti i tipi di orientamento sessuale.
Tra queste c’è Google che ha donato un ammontare di 178.500 dollari ai politici anti-LGBTI. Di questi, 10.000 dollari sono stati versati al senatore repubblicano dello Utah, Mike Lee, che ha rilasciato dichiarazioni in difesa della libertà religiosa di offendere le persone LGBTI+.
Non sono stati da meno altri colossi come Amazon (che ha realizzato diverse pubblicità gay-friendly nel corso degli anni e Alexa sarà impostata per rispondere anche alle domande LGBT), AT&T, Microsoft e Dell, che hanno ceduto 15.000 dollari al rappresentante del Texas, Brian Babin. Quest’ultimo aveva definito la politica di Obama sui bagni neutrali rispetto al genere “sbagliata” e “fuorviata”.
Le Unioni Civili non sono state un peso per le casse dello Stato
Il Ministero dell’Economia ha precisato che la Legge Cirinnà sul riconoscimento legale delle unioni civili, che estende anche alle coppie omosessuali la pensione di reversibilità, costerà pochi milioni di euro. Il costo massimo sarà di 22,7 milioni di euro a decorrere dal 2025.
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