Alcuni giorni fa è stato inaugurato nel quartiere Montecalvario di Napoli un murales raffigurante l’82enne Tarantina Taran, ultima degli storici femminielli, figure quasi mitologiche della cultura partenopea.
Forse per l’eredità culturale della Magna Grecia che concepiva l’ermafroditismo come un dono di bellezza divina derivante dalla benevolenza di Ermes e Afrodite, o forse perché considerati portatori di buona sorte, i femminielli hanno sempre partecipato attivamente alla vita dei quartieri cittadini.
Molto note sono le rappresentazioni folkloristiche e religiose di cui sono protagonisti, tra le quali il pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Montevergine alla Candelora, le tombolate realizzate nei “vasci” della città e interdette agli uomini, o la “figliata d’e femminiell”. Quest’ultima è un particolarissimo rito ancestrale che mette in scena tutte le dinamiche legate alla gravidanza e si conclude con il femminiello che dà alla luce un oggetto di forma fallica per propiziare la fecondità cittadina.
L’opera è stata realizzata sulla parete esterna del Palazzetto Urban, con il sostegno della Fondazione Foqus e il coordinamento del Tavolo interassessoriale della Creatività Urbana del Comune di Napoli. Il murales non ci parla solo di Tarantina, una delle prime donne transgender pugliesi che in giovane età si trasferì a Napoli dove visse i momenti intensi del dopoguerra, ma ci racconta di una cultura dell’accettazione ormai entrata in disuso. È il simbolo di una lotta contro il pregiudizio e porta con sé, attraverso le rughe del viso di una donna anziana, i momenti di crisi e di rinascita di un intero Paese.
Come, infatti, dichiara l’autore dell’opera Vittorio Valiante: «Siamo in presenza di uno di quei volti che maggiormente esprime l’anima di Napoli, un volto che esprime più di mille parole».
All’inaugurazione era presente anche il sindaco De Magistris, che si è espresso sulla promozione dell’arte urbana: «Questi bravissimi artisti stanno contribuendo alla rinascita culturale di Napoli e a trasformare luoghi oscuri e insignificanti in spazi pieni di vita, di storia e di umanità con l’apprezzamento della gente del posto, creando una riscoperta del senso di comunità su cui lavoriamo molto».
Daniele Sorbo Filosa
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